Feb. 26th, 2020

hannyakoma: (Default)
Prompt: Isekai

Word count: 1640
Rating: sfw
Fandom: Bungou Stray Dogs

Note: (Parte uno di due) Forse non è troppo palese, ma in questa AU Dazai è l'unico che ricorda l'esistenza di altri universi e nemmeno qui gli ho dato una gioia.
Enjoy the angst.


La luce degli schermi non era fortunatamente l'unica fonte di illuminazione nel laboratorio. Se così fosse stato, pensava Nakahara, avrebbero dovuto lavorare ad una cura per la vista oltre che sul progetto corrente. Erano rimasti i soli ricercatori a lavorare fino a quell'ora tarda, considerando che l'altro più ferrato collaboratore alla ricerca si trovava al momento in uno stato mentale alquanto instabile. 

Ryuunosuke e Chuuya avevano da lungo rinunciato ad un normale schema di riposo, ancor prima di dedicarsi al lavoro in cui erano al momento immischiati, ma tale cambiamento non sembrava pesar loro più di tanto. Entrambi erano ferrei sostenitori dell'idea che la notte portasse maggior consiglio, calma e saggezza rispetto alle caotiche giornate, trascorse a cercare di mettere insieme e far concordare le decine di cervelli dei loro colleghi. E, soprattutto, entrambi preferivano lavorare in piccoli gruppi organizzati più che in un'unità scientifica numerosa.

 

C'erano momenti di lavoro intenso, di revisione, di sperimentazione (avevano ricevuto carta bianca dal loro committente, tutti loro, per cui non v'era limite di accesso ai laboratori) ed ognuno aveva letteralmente libertà assoluta di agire secondo il proprio criterio di "correttezza" nelle procedure.

Dazai Osamu era il ricercatore che sino a quel momento si era adoperato più di tutti nei vari e diversi campi: ricerca, formulazione di ipotesi, dimostrazione e conclusioni—come uno scienziato legato al classicismo della sua carriera, ma che era al tempo stesso un visionario in grado di inventarsi i più peculiari "procedimenti alternativi". 

Era stato lui il primo nel loro gruppo ad effettuare l'iniziale ricerca sull'anima, teorizzando che sarebbe stato molto più efficace riportare al mondo e conservare lo spirito di una persona in un corpo fabbricato, piuttosto che cercare di ripristinare quello originale, in cui far tornare poi l'anima stessa. Molti lo definivano un mero “fantoccio”, ma nonostante lo scetticismo generale

Le ricerche erano ancora allo stadio primordiale quando, durante uno degli esperimenti di scienza mista ad arcanismo, Osamu era riuscito con successo a legare lo spirito di un animale ad una memoria informatica. Il suo successo aveva fatto così tanto scalpore che più di un magnate s'era offerto a lui come sponsor per le successive ricerche, a patto che i risultati delle sue scoperte non fossero condivisi se non all'interno di una ristretta cerchia di collaboratori.

Fu solamente qualche anno dopo, quando l'ennesimo esperimento su una nuova teoria di fusione diede risultati incredibili ed al tempo stesso terrificanti, che Dazai venne non solo denunciato ma persino dichiarato pubblicamente un "pericolo per la società". Cosa fosse accaduto realmente per far si che il magnate arrivasse a tale offesa non fu reso pubblico—le teorie che nacquero a riguardo erano diverse e ciascuna aveva tanti sostenitori quante erano le stelle di un cielo estivo—ma a seguito dell'incidente che fu la causa scatenante delle stesse, la ricerca a cui l'uomo aveva lavorato per anni venne gettata in pasto alla comunità scientifica.

Nonostante molte voci urlassero allo scandalo, altrettante si levarono per sostenere il progetto dell’uomo, andando contro il Vecchio Credo come un’unica volontà. I tempi erano cambiati ed il vecchio doveva lasciare spazio al nuovo, senza precludersi alcuna possibilità.

Dove un uomo si era ritirato per paura, altri avevano avanzato invece a testa alta, offrendo non solo sostegno finanziario ma anche un incoraggiamento che andava ben oltre il timore di ripercussioni portate dal precedente regime morale. Pian piano i membri più curiosi della comunità scientifica, degli arcanisti e degli studiosi di alchimia cominciarono a radunarsi, attirati dalla notizia come falene affascinate da una fiamma viva.

Era nato così il progetto a cui molti stavano dedicando non solo tempo ed energia, ma letteralmente la propria vita.

*

«Dov’è Dazai?» domandò Ryuunosuke ad un certo punto, forse stancatosi di guardarsi attorno nella speranza di vedere l'uomo sbucare dal suo solito angolo del laboratorio. Erano passati giorni dall'ultima volta che l'aveva incrociato, da prima di quell'esperimento malriuscito a detta di lui, e da allora apparentemente nessuno aveva ricevuto notizie da parte sua.

Comprensibile, umanamente parlando, ma inaccettabile in un campo come il loro.

L'altro ricercatore e scienziato rilassò le spalle, con uno sbuffo già pronto in gola. «Dove vuoi che stia? Dopo l'altro giorno si è chiuso nel suo studio privato, per mettersi a studiare altre possibilità scommetto.»

«Non è uscito da allora?»

«Non che io sappia. Probabilmente tra qualche tempo lo vedremo sbucare dal nulla e ci tartasserà di nuovo con le sue teorie su questo o quel materiale da usare, o su chissà che rituale azteco che influenza persino l'anima delle persone a parole.»

Ryuunosuke gli riservò allora uno sguardo confuso, occhi socchiusi e sopracciglia aggrottate. «Quello di cui parli è il kotodama, e non è un rituale azteco.»

Chuuya roteò gli occhi, agitando una mano come per scacciare un insetto fastidioso. Lui era più il tipo da lavorare sul lato scientifico della ricerca, sulla creazione dei fantocci usati per ospitare l'anima del richiamato—era un esperto di materiali più che di rituali, anche se le due cose (come aveva ormai imparato) si intrecciavano come i fili di un braccialetto fatto a mano.

Il rumore di tasti premuti seguì quello scambio per qualche momento, prima che ancora la voce della donna interrompesse la monotonia.

«Forse dovremmo controllare come stia... Sai, temo sia il tipo da trascurarsi in queste situazioni-»

«Senti, se tanto ci tieni a quel pazzo, perchè non te ne vai a controllare tu stesso come sta invece di appestare me di domande?» sbottò allora l'altro, infastidito indubbiamente da quelle interruzioni in sequenza, arrivando a voltarsi con tutta la sedia verso il suo interlocutore. «Hai paura che ti tiri dietro qualcosa forse? Non saresti la prima persona a diventare vittima dei suoi scatti.»

Quel genere di tono era lontano da quello a cui il più giovane era abituato, specialmente da parte del collega. Una parte di lui—quella cinica, che le ricordava di non potersi trascinare dietro "pesi morti" per la ricerca—comprendeva la sua reazione e le dava della sciocca sentimentale; l'altra invece (quella che Ryuunosuke tendeva—fortunatamente o sfortunatamente—ad ascoltare di più) attaccava nel suo piccolo quel commento insinuatore e decisamente infelice nei suoi confronti.

Uno sprazzo di coscienza parve apparire, poco dopo, nella mente dell'uomo. Gli ci volle qualche momento, tuttavia, per superare il blocco datogli dalla sua incapacità a fare un passo indietro ed ammettere di aver forse esagerato un po' troppo.

«Ryuu, fatti dare un consiglio spassionato da qualcuno che conosce Dazai meglio di te. Lascialo stare. Cercati qualcuno che possa trattarti bene, se proprio vuoi qualcuno accanto a te, non uno che potrebbe vederti solo come sostituto di qualcuno che ha perso.» commentò, la voce profonda ben più accomodante e paziente, simile al tono a cui era abituato l’altro.

«Dazai è solo...» abbozzò il più giovane, interrompendosi quando le parole rifiutarono di presentarsi e cambiando completamente basi. «Ha dei modi un po’ bruschi a volte, ma è una persona determinata e seria.»

«Non è determinazione, la sua, e se non avessi delle fette di salame sugli occhi lo capiresti. Quel tipo è completamente ossessionato—sia dalla vita che dalla morte, e soprattutto dal modo di poter prendere le redini di entrambe.»

C'era un tono quasi definitivo nella voce dell'uomo, quasi fosse stanco di parlare del modo di fare del collega. Anzi, come se fosse da molto ormai che non ne poteva più di avere a che fare con l'essere umano chiamato Dazai Osamu. 

Ryuunosuke, però, non sembrava affatto dello stesso avviso. «No... è un uomo che ha sofferto. Tutti qui abbiamo passato lo stesso.» difese lui, spostando lo sguardo a lato poco dopo aver terminato la sua frase. Chuuya puntò lo sguardo severo in quello del collega, impassibile. 

«E' vero, siamo sulla stessa barca. Ma ciò non significa che siamo tutti disposti a spingersi fino al punto a cui lui è arrivato.»

Il ricercatore  non proferì parola dopo quella risposta, forse intenta a riflettere su quello che era appena stato detto. Certo, ogni persona che lavorava al progetto di resurrezione conosceva la storia di Bradley ormai, chi perchè aveva assistito in prima persona e chi per sentito dire.

«E' quello che ci crede più di tutti, in quest'iniziativa. Ed è anche l'unico che è riuscito a far tornare la sua persona importante in vita...» mormorò lui, come fosse un pensiero che le era sfuggito dalle labbra senza che se ne accorgesse. Gli occhi chiari della donna si spostarono sul pavimento. «Però, lui...»

«Quello che è tornato in vita non è Oda.» ribattè allora Chuuya, piccato. «Non quello che conosceva lui nè quello che conoscevamo noi.»

Ryuunosuke lo spostò lo sguardo su di lui, stupito: quella era una novità per lei. «L'hai incontrato anche tu? Oda, intendo.»

L'uomo si voltò, allora, con un'espressione di sincero stupore dipinta in viso, che lasciò il giovane con una confusione se possibile ancora maggiore. Quando il silenzio si prolungò tra di loro, il giovane cominciò a sentirsi a disagio: non capiva cos'avesse di strano la sua domanda, anche a rifletterci.

«Ho detto qualcosa che non va?» domandò ad un certo punto, la voce fattasi più incerta tutto d’un colpo.

Vi fu ancora un momento di esitazione, prima che la voce dell'altro finalmente riempisse il silenzio nella stanza.

«No, non importa.» fu la replica di Chuuya, mentre con un lungo sospiro questi se ne tornava a guardare i dati degli ultimi test effettuati sullo schermo del computer. Gli ci volle un attimo prima di realizzare che Ryuunosuke era rimasto ancora imbambolato, ma non esitò a riprenderla non appena notò l'inattività dell'altra. «Su, al lavoro ora! Abbiamo già un paio di mani ed una testa in meno, se battiamo la fiacca questo progetto non si completerà mai.»

Il giovane annuì distrattamente, per nulla convinto della risposta che aveva ottenuto. Un lampo di sospetto e curiosità s'era ormai fatto strada nel suo animo, tanto forte e rumoroso nell'esigere una spiegazione che ebbe non poche difficoltà a concentrarsi sul suo compito.


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Prompt: Isekai

Word count: 2090
Rating: sfw
Fandom: Bungou Stray Dogs

Note:
(Parte due di due) Forse non è troppo palese, ma in questa AU Dazai è l'unico che ricorda l'esistenza di altri universi e nemmeno qui gli ho dato una gioia. Enjoy the angst.


Il rumore delle onde era l'unica cosa che gli arrivava alle orecchie, accompagnato dal lieve sibilo del vento proveniente dal mare. L'aria ormai satura di salsedine, che un tempo riusciva a calmare anche il più nero dei suoi umori, quel giorno non poteva fare nulla per migliorare il suo stato d'animo.

Non c'era più nulla che potesse fare, gli ripeteva la mente, nessuna azione che nessuno avrebbe potuto compiere avrebbe mai riportato indietro il tempo.

Ironico, ripetè mentalmente per l'ennesima volta, come tutto si era ridotto ad un pugno di sabbia stretto stretto nella sua mano. Sabbia che, man mano che tentava di trattenerne, finiva per scivolare via dalle fessure tra le sue dita. Davvero ironico, perchè quelle stesse mani avevano per anni tentato di salvare vite, di rimediare a quello che era stato forse il suo più grande peccato.

Ma niente, aveva deluso tutti, se stesso in primis. Aveva fallito di nuovo. Nemmeno in quel mondo era riuscito a fare qualcosa di buono (o a salvare chi la sua anima amava più del mondo intero). Non gli erano rimaste più lacrime, nè di delusione nè di rabbia, da versare su quel completo fallimento da parte sua.

Sapeva benissimo che la ricerca in cui si era invischiato non avrebbe offerto un percorso semplice, tutto in discesa. Aveva creduto, però, di poter fare qualcosa per migliorare la situazione—con l'esperienza accumulata già in passato e quella nuova, che avrebbe accumulato lavorando su quel progetto; con la buona volontà di un uomo che non aveva nulla da perdere a quel punto.

Così credeva, almeno.

Eppure...

Eppure ancora ricordava, anche solo dopo pochi giorni, l'esatta sensazione provata sulla sua pelle quando per la prima volta Lui aprì gli occhi: un'euforia inebriante, la voglia di mettersi infantilmente ad urlare e piangere e ridere, tutto insieme. Ciò gli portò, per un attimo, un sorriso alle labbra ormai secche. 

Ricordava di aver teso una mano verso di lui, di avergli sfiorato la guancia pallida e liscia—come porcellana, suggerì la sua mente, non senza una nota di ironia—e di aver cercato di scrutare in quelle profonde iridi dello stesso colore del mare, in cerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva identificare. Un segno di vita, qualcosa che potesse rassicurarlo che sì, lo riconosceva, che sapeva cos'era accaduto ed immaginava cosa avesse fatto, il medico, per farla tornare. Anche una singola, sola parola di gioia dettata dall'emozione gli sarebbe bastata.

Non vide nulla di ciò.

Anzi, quello che incontrò allora fu solamente silenzio, impassibilità. 

Tutte in contrasto con il sentimento prorompente che si sentiva crescere nel petto e che minacciava di esplodere, come un fuoco d'artificio nel cielo estivo.

Era tornato in vita, ma non era vivo.

Il pensiero, lo sapeva, aveva colpito senza pietà ed aveva istantaneamente distrutto ogni parvenza di felicità provata negli attimi precedenti. Un battito di silenzio, la realizzazione ed, infine, il caos.

Non aveva retto, non avrebbe potuto. Poteva qualcuno biasimarlo, onestamente?

Tutti i collaboratori di quel progetto avevano uno scopo comune, esplicitamente dichiarato o ben intuibile data la natura del progetto stesso, anche se riportare una persona cara in vita, per secoli, era stato definito impossibile dalla scienza e tabù dalla moralità. 

La speranza di una persona in grado di amare, di provare un forte sentimento verso un'altra, però sembrava non prestare attenzione alla razionalità.

Lui non era da meno in quel momento, nè lo sarebbe mai stato—ne era sicuro. Per questo, si disse, era giustificato nella sua delusione, nella sua rabbia e nel totale sconforto che lo colsero nel realizzare che il suo amato aveva deciso di non tornare tra le sue braccia, anche dopo tutto quello che aveva fatto e tentato fino ad allora. 

C'erano volute altre quattro persone per trattenerlo, per impedirgli di mandare all'aria i risultati fino a quel momento ottenuti con quell'ennesimo esperimento (che, già da soli, rappresentavano più di quanto avessero mai raggiunto in precedenza). L'avevano letteralmente trascinato fuori dal laboratorio, ansante e scalciante, mentre la sua attenzione e le sue parole (maledizioni, imprecazioni) venivano rivolte al Fato avverso, al dannato Creatore che aveva reso tutto più complicato con la sua decisione di rendere gli uomini "mortali".

La morte era una certezza, così come era la vita—entrambe rappresentavano punti fissi della loro cultura e niente e nessuno avrebbe dovuto anche solo pensare di metter mano in ciò che la natura aveva stabilito.

"Coloro che sono stati ed hanno cessato di essere, mai più dovranno camminare su queste terre"—il Vecchio Credo era stato severo ed esplicito a riguardo e Dazai ancora ricordava fino a che punto erano disposti a tarpargli le ali, pur di non riconoscere i suoi sforzi.

Non ricordava quante lacrime aveva versato quando Sakunosuke era venuto a mancare, così prematuramente da stupire chiunque lo conoscesse. Una vita stroncata nel peggiore dei modi e nel peggiore dei momenti, ma si sa che le cose belle non sono destinate a durare a lungo. Così andavano le cose, così era aveva deciso Madre Natura.

Eppure, pensava lui con una certa amarezza, quella stessa natura che aveva egoisticamente deciso di limitare il tempo disponibile di ogni essere, umano e non, vivente su quella terra; quella stessa natura che aveva dato agli uomini la capacità di ragionare, di formulare teorie ed applicarle e verificarle, per migliorare la propria vita—essa aveva permesso che la scienza e l’arcanismo si evolvessero a tal punto da fondersi in pratiche, normalmente, di gran lunga lontane dalla natura della stessa.

Dazai non era un genio, o almeno tale non si considerava. L'unica cosa che aveva fatto in vita sua era usare il cervello al meglio che poteva. Un “meglio” che nel suo caso si traduceva nel seguire intuizioni personali o anche idee suggerite da altri.

La mente dell'uomo, ancora offuscata da innumerevoli preoccupazioni, si destò un poco a quell'ultimo pensiero. E' vero, si disse, non era arrivato dove si trovava in quel momento da solo, ma aveva unito le sue idee a quelle di Sakunosuke.

L'immagine dell’uomo appariva sfocata nella sua memoria, come se la sua mente stessa rifiutasse di fargli ricordare qualcosa di tanto nostalgico e doloroso.

Le iridi castane si nascosero dietro a palpebre tremanti per qualche momento, un sospiro liberato dalle labbra secche e sottili. Anche qualcuno che non lo conosceva avrebbe potuto notare la sua concentrazione, se non dal modo in cui si stava inconsciamente mordendo il labbro inferiore almeno dall'aggrottarsi delle sue sopracciglia.

Un tremore gli attraversò le ossa, da capo a piedi, nel momento in cui la realizzazione lo colpì come un mattone in pieno viso. Non ricordava il suo viso e stava lentamente dimenticando anche il calore dei suoi abbracci—quelli che si scambiavano nel momento in cui uno o l'altra riusciva a trovare un "punto di svolta" nella ricerca.

L'unica cosa che rimaneva certa, e di cui Dazai era particolarmente grato, era la sua voce. Gentile, paziente. Emozionata, concentrata.

L'uomo si trovò a imprecare a mezza voce, perchè non era la sua memoria quella che conservava frammenti tanto importanti della sua vita. Se non fosse stato per le registrazioni vocali delle sue osservazioni e dei suoi appunti, era certo che non gli sarebbe rimasto più nulla di Oda.

Non era giusto, nulla di tutto ciò. Non voleva dimenticare, nè avrebbe dovuto essere possibile già di per sè.

Perchè, quindi?

Quella domanda sembrava volergli dilaniare la mente così come l'anima—e Dazai avrebbe volentieri permesso a quel dolore di ucciderlo, in alcuni momenti, ma per ironia della sorte ogni qualvolta l'uomo aveva simili pensieri per la testa, qualcosa o qualcuno appariva al suo fianco per distrarlo, fermarlo.

Come in quell'occasione.

«Non ti sei ancora stancato di guardare il mare da questa spiaggia?»

Il ricercatore riaprì gli occhi di scatto, inspirando rapidamente, e si voltò verso il collega con la lentezza di chi si sentiva come un ladro appena colto in flagrante.

«Cosa fai qui?» domandò, con il tono di chi onestamente non si aspettava di trovarsi qualcuno davanti tanto presto. Soprattutto, tra tutti gli individui che Dazai poteva immaginare avrebbero pensato di andare a cercarlo e controllare che fosse ancora vivo, nella sua classifica mentale Chuuya non era di certo ai primi posti. Tutt'altro, a voler essere onesti.

Il rapporto tra loro poteva essere facilmente riassunto nell'espressione popolare “cane e gatto selettivi”. Tanto erano compatibili sotto il punto di vista lavorativo quanto non lo erano su tutti gli altri—come dei geni specializzati in un unico campo che risultavano essere disastri in tutto il resto, rapporti umani inclusi.

Non si definivano amici, nè tanto meno colleghi. Conoscenze, forse, che condividevano qualcosa per cui non esistevano descrizioni a parole.

Chuuya scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli ramati con fare a metà tra l'esausto e l'irritato. «Lo sai che faccio qui. Il solito, controllo che non ti sia ammazzato o che abbia deciso di rinunciare al lavoro per un attacco di depressione.»

«Non sono depresso.» ribattè subito l'altro aggrottando le sopracciglia, forse nella speranza—pensava Chuuya—di sembrare più minaccioso. «Sto solo... facendo una pausa.»

«Puoi chiamarla come ti pare, ma due settimane non sono solo una 'pausa'. La tua assenza sta cominciando a farsi sentire al laboratorio.» continuò il più vecchio, muovendo qualche passo verso il collega. Non si sedette sulla sabbia come quest'ultimo, anzi, rimase in piedi accanto a lui, abbastanza vicino da potergli tirare dei deboli calci mentre si reggeva in equilibrio sull'altro piede.

«Finiscila- sei fastidioso!»

«Anche la tua espressione ora lo è, ma non mi sembra tu stia sentendo me lamentarmi a riguardo.»

Un altro calcio, questa volta un po' più deciso dei precedenti.

«Chuuya!»

Dazai dovette fisicamente impedirsi di mostrare all'altro una delle sue note smorfie da offeso, non gli avrebbe dato la soddisfazione nè ora nè in futuro, anche se significava voltarsi da un'altra parte.

«Allora ce l'hai ancora la grinta.» commentò Chuuya, con un fare di apparente noncuranza (che sarebbe risultato molto più credibile, se non fosse stato per il mezzo sorriso che gli si era dipinto in faccia alla reazione altrui). «Temevo l’avessi sfogata tutta contro OD4001.»

«Non nominarlo. Non voglio sentirne parlare.»

«Perchè no? Paura che una volta stabilizzato non ti voglia vedere?»

«Ho già visto abbastanza io di quella- quella-» la voce gli si spezzò in gola contro la sua volontà, obbligando l’uomo in silenzio per qualche momento; l’altro, apparentemente paziente, evitò di commentare subito, lasciandogli il tempo per formulare una frase di senso compiuto. «Non mi ha riconosciuto, Chuuya. Non poteva essere lui, avrebbe fatto qualcosa—qualsiasi cosa per farmi capire che era lui.»

La prima cosa che percepì Dazai, dopo quella sua frase, fu un breve contatto fisico—pelle contro pelle—subito seguito da un’esplosione di dolore proveniente dalla sua guancia. Colto di sorpresa dalla sensazione e dal gesto di per sè, il ricercatore scoraggiato finì a terra senza troppi complimenti.

Occhi scuri, spalancati, andarono a posarsi poco dopo sulla figura incombente di fronte a loro.

«Ora ascoltami e non fare l’imbecille, Dazai.» redarguì Nakahara, severo. «Mentre tu te ne stavi qui a piangerti addosso perchè i tuoi piani non sono andati come volevi, Ryuunosuke ed il suo team hanno scoperto perchè non è andata così.»

«Come? Loro hanno-» La domanda gli morì per metà in gola, mentre una miriade di domande gli si affollò in mente. L’unica che però l’ebbe vinta, fu un: «Che è successo allora?!»

L’altro lo guardò per qualche istante senza dir nulla, come se stesse valutando se effettivamente parlargli delle scoperte nel dettaglio o meno. Come se stesse riflettendo su quanto il sapere avrebbe giovato all’uomo ed alla sua mente. Alla fine, però, optò per il sì: meglio che venisse a conoscenza della cosa da lui piuttosto che leggerlo da uno dei rapporti giornalieri. 

«Ricordi perchè Oda si è unito a questo progetto?» domandò Chuuya, per sicurezza. Al cenno affermativo del collega, sospirò appena prima di continuare. «Aveva un figlio che è venuta a mancare. Oda ha dato tutta se stesso alla ricerca per riportarlo in vita, fino a quell’incidente. Ryuu crede che in punto di morte, Oda sia riuscito a fare qualcosa che gli ha permesso di riuscire nel suo intento, anche a discapito di se stesso.»

«Quindi mi stai dicendo che…»

«OD4001 non ti ha riconosciuto quando lo chiamavi perchè non ha l’anima di Oda Sakunosuke, ma quella di Oda Hisei. Suo figlio.»

Dazai rimase raggelato a quella dichiarazione, finchè la sensazione di qualcosa che gli scorreva giù lungo le guance non riuscì a strapparlo dallo stupore. Per una volta, calde lacrime gli rigavano il volto senza che potesse far nulla per fermarle--e non gli importava che Chuuya fosse l’unico testimone di quella prova di debolezza.

hannyakoma: (Default)
Prompt: Arcani maggiori (Arcano senza nome/Morte)

Word count: 270
Rating: sfw
Fandom:
The Arcana
Note:
//


 
Thanks to all the information gathered up until now, Badr knew what was happening. She got sick. She contracted the deadly illness that she, alongside many others, desperately tried to fight and cure once and for all.

The Plague.

There was little she knew she could do at this point. Looking at her reflection in the mirror, judging from the obvious signs, it wouldn’t be long before life abandoned her.

“They’re already turning red…”

Breathing became harder for her as time passed, more so at the striking knowledge she was going to die without being able to do a thing. Mind going back to a somewhat distant memory, Badr thought about her home, her family. Her friends. Her…

“… Asra…”

They parted on less than friendly circumstances, both fighting to get their point across. Stubbornness had always been a common trait, such as caring and worrying deeply about each other.

He wanted to leave. She wanted to stay.

Badr thought she could hold herself quite alright until he came back, possibly with a successful remedy for the Plague. And even if it didn’t come to that, they could work together with Doc to find it. 

A serie of coughs came up in her throat, almost choking her while she tried to keep quiet. Julian… Badr hoped he wouldn’t blame himself for this.

“He tends to do that, carrying the weight all by himself…”

Hope. Badr could only hope for the best, for both of them, as she composed herself back again.

She still had some time to fight, to do whatever she could. 

Had some time to try, at least.

 



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Prompt: Don’t leave, don’t leave, I want you to realize when I’m gone.

Word count: 1000
Rating: sfw
Fandom:
Boku no Hero Academia
Note:
OC!Centric. Kurosaki Sayzor, che viene nominato nella seconda parte, è il protagonista di The Chronicles of the Dark Knight su Wattpad ed il main OC di un mio caro amico, a cui dedico sto 1K di pare mentali ed angst su Haine. <3



C’era un qualcosa di sbagliato in quel suo desiderio. 

La sensazione di vuoto che percepiva all’interno del petto e la certezza che questa potesse essere colmata solamente dalla presenza di un’altra persona--persona che al contempo era balsamo e acido, salvezza e condanna--la stava facendo impazzire. Il contrasto tra le due cose, desiderio e reale necessità… sapeva da cos’aveva avuto origine, tuttavia rifiutava di affrontare la questione. Negare era l’unica soluzione accettabile, non pensarci e fingere che quell’ultimo dialogo avuto con lui non fosse mai esistito.

I tremori continuavano imperterriti a scuoterla. Aveva dovuto sedersi su una panchina del parco ove si era recata per non finire per terra, quando gli stessi avevano cominciato a colpire anche le gambe. Ed anche lì, tremava e tremava, come se fosse stata nuda nel bel mezzo di una tormenta.

Sperava, pregava che tutto finisse presto.

“Haine!” La voce di Kaoru, leggermente affannata e piena di sincera preoccupazione, riuscì a farle alzare lo sguardo dal secco terriccio di fronte a sè. Il giovane, suo confidente ed aspirante psicologo, si inginocchiò di fronte a lei dopo averla chiamata nuovamente, vedendo che la più piccola non sembrava in grado di muoversi. “Haine… cos’è successo? La tua chiamata di prima--credevo ti fosse successo qualcosa, mi hai spaventato a morte.”

Kaoru, sempre presente e preoccupato e comprensivo. Una figura su cui la ragazza sapeva di poter contare per liberare i suoi più reconditi pensieri, senza creargli disturbo, senza sentirsi giudicata o sminuita.

Strinse le labbra in una linea dritta per qualche momento quando l’altro le domandò ancora cos’avesse, poggiandole le mani sulle spalle in un gesto di conforto. Poco dopo, sentì le stesse tremare e la vista si fece offuscata, liquida--scoppiò a piangere ancor prima che potesse rendersene conto

La barriera che aveva costruito nel corso degli anni per mantenere le emozioni sotto controllo, le sue idee “dissidenti” nascoste all’occhio del pubblico ed i suoi desideri più irrealizzabili persi nella fitta nebbia della sua mente; tutto ciò crollò come un castello di carte esposto alle intemperie.

Non si fidava più degli eroi, della società o del perbenismo dilagante in essa. Desiderava che sua madre fosse ancora con lei e non quattro metri sotto terra. Esigeva una vita tranquilla, un equilibrio. Bramava di poter tornare a credere nelle parole altrui. Sperava di poter ottenere la forza necessaria per abbandonare le sue paure nel passato, ove esse appartenevano.

Voleva poter proteggere chi amava, sempre e comunque, senza che altri le ponessero limiti.

Kaoru rimase ad ascoltarla fino alla fine, accogliendo i singhiozzi e la disperazione e le braccia strette attorno al suo collo (un’ancora, un appiglio al presente, alla realtà) con la pazienza di un santo e le cure di un fratello maggiore. Le offrì il conforto di cui aveva bisogno e la piccola spinta che le mancava: ove la società, lo status quo delle cose, le avevano imposto dei freni, lui semplicemente suggerì di ignorare qualsivoglia freno esterno potesse avere.

Era semplice, in fondo. Bastava poco per cambiare ogni cosa nella sua vita. 

L’unico suo errore, si disse, era stato impiegare così tanto a realizzare una verità tanto semplice.

*


Stardust osservava il vicolo ai piedi dell’edificio con muto interesse, le iridi cobalto fisse sulle due scure figure intente a scambiarsi convenevoli. Seppur i suoi ordini fossero stati di restare a guardia della residenza insieme ai suoi due nuovi colleghi, non aveva resistito il bisogno di seguire il suo maestro mentre rientrava dall’incontro con il giovane boss della yakuza--il suo nuovo capo, ora che ci pensava. Tendeva a dimenticare la cosa, dato che lo era diventato solamente da qualche ora.

Era una conseguenza naturale al suo “nuovo” essere: vegliare su coloro che godevano della sua fiducia, che l’avrebbero aiutata a raggiungere un obiettivo che condividevano a loro volta. Non che il rispettabile maestro avesse bisogno di una ragazzina a fargli da guardia, ma… Considerando la personalità dell’uomo, non era da escludere che potessero esserci incidenti di percorso, specialmente se questi incontrava dei giovani eroi.

Il suo ex compagno di scuola era lo sfortunato esempio della giornata.

“Kurosaki-san, corri a casa.” mormorò la giovane, accovacciata sul bordo del tetto, le braccia conserte e poggiate sulle ginocchia. “Vattene, vattene da lì. Non è tipo che puoi affrontare adesso.”

Era curioso, se ci avesse pensato, come il giorno della partenza del ragazzo verso il camping di allenamento, Haine non avesse voluto altro se non dirgli di rimanere al suo fianco. Che diventasse la sua costante, la certezza giornaliera di cui aveva bisogno per star bene con se stessa (per non pensare al terrore, al senso di tradimento che provava verso eroi e società, per soffocare il desiderio di cedere al suo quirk e liberare tutta l’energia che accumulava giorno per giorno, al diavolo le conseguenze).

La presenza di Kurosaki stava diventando una necessità, per lei.

E probabilmente tale reazione era riprova di quanto desiderasse, nonostante tutto, essere salvata prima che fosse troppo tardi. Un impulso che era stato già accuratamente soffocato, ancor prima che potesse darvi voce.

In un istante, la ragazza si rialzò dalla posizione in cui si era accomodata, incurante dell’equilibrio precario del suo appoggio. L’orizzonte, segnato da file di grattacieli ed edifici costruiti da mano umana, si ribaltò per qualche secondo mentre il suo corpo precipitava verso il vicolo sottostante, senza freni nè paura. 

L’aria le sferzava il viso, lasciando sfuggire la massa di capelli rossi dal cappuccio della felpa durante la caduta--una sensazione, per semplice che fosse, liberatoria--finchè, con calcolata precisione, quest’ultima non fu interrotta ad un metro dal suolo.

Atterrò nello stesso punto in cui, fino a pochi minuti prima, era in piedi il giovane eroe dal costume nero. Ironico come gli sarebbe bastato alzare lo sguardo per vederla, considerò lei mentre si risistemava il cappuccio sul capo. Un’occasione sprecata: l’ennesima in cui l’assenza non gli aveva permesso di notare quando se ne fosse andata a sua volta.

Poco male, si disse ancora Stardust, imboccando il vicoletto per tornare verso la residenza. Aveva del lavoro da fare, dopo tutto.

hannyakoma: (Default)
Prompt: You're the only thing I want to own.

Word count: 1120
Rating: sfw
Fandom:
Black Clover
Note:
(Io sono Dante e Dante è me -cit.) Forse un po' spoiler per chi non segue le scan in inglese: si parla del regno di Spade e di un personaggio che compare dopo il processo. Character x Reader, possibilmente? You've been warned.



Gli anni impegnati nella conquista del regno di Spade sembravano un lontano ricordo ormai, che a stento la sua mente elaborava quel periodo. Appariva così naturale considerare quelle terre sue da sempre, un diritto di naturale possesso su un’area man mano sempre più estesa: ben presto, ne era certo, avrebbe avuto l’intero continente ed i suoi quattro paesi nelle sue mani.

In fondo, se i suoi occhi si posavano su qualcosa ed egli decideva che tale fosse di suo gusto, quello stesso qualcosa doveva diventare necessariamente suo. O, per meglio dire, lo sarebbe diventato, volente o nolente. 

Era la più naturale conseguenza delle cose, l’unica legge a cui tutti si sarebbero dovuti attenere, nella sua ottica di conquistatore e despota.

In fondo, la fama (il terrore instillato nella popolazione) di Dante non aveva origine da innate abilità sul campo di battaglia. Le storie su di lui erano offuscate da un velo di mistero che non faceva altro che arricchire la già opprimente inquietudine tra gli abitanti del regno: voci sulla sorte di chi cercasse di farlo ragionare, osasse avere l’ardore ed il coraggio di esprimere un parere dissidente… 

Nessuno sapeva per certo quali e quanti orrori avessero subito tali impavidi prima di giungere alla loro fine. Si trattava di storie ormai vecchie, quasi sepolte dalle sabbie del tempo, dopo tutto.

Ciò su cui Dante trovava alquanto importante concentrarsi, invece, era il presente.

Quasi per noia si era unito alla squadra incaricata dell’espansione dei territori--o meglio, dei campi di caccia per trovare nuove fonti di energia per le fortezze mobili, utilizzate a loro volta per raggiungere terre altrimenti impossibili da raggiungere e quindi conquistare.

Con Zenon impegnato altrove e Vanica ancora non pronta per lanciarsi in missioni di conquista e ritornare come vincitrice--il suo ancora scarso autocontrollo rischiava di minare la buona riuscita dei suoi piani e questo, nonostante fosse sua sorella, non era qualcosa che il più vecchio era disposto ad accettare--Dante si trovava ad accompagnare ancora le milizie di tanto in tanto. Un’attenzione non necessaria, di solito, ma v’erano occasioni in cui tale strategia si dimostrava più che valida.

Sotto la sua supervisione, i soldati stavano eseguendo un lavoro a dir poco impeccabile: chiunque avesse abbastanza mana da tentare una seppur futile resistenza, veniva riunito ove un team con magie di soppressione poteva tenerli sotto controllo. A tali individui sarebbe toccata una scelta--accettare di servire il paese (e la Triade Oscura, di conseguenza), oppure diventare pura energia per le fortezze. 

Quest’ultimo era il fato che attendeva chiunque non vantasse un notevole livello di mana, invece. Ed anche quell'atto spietato, nell’ottica del tiranno, fungeva da occasione di riscatto per quelle inutili, infime creature per avere uno scopo nella vita.


Un sorriso serafico stava perennemente dipinto sul volto dell’uomo, anche nel percepire un’effettiva resistenza in una delle ville nobiliari del luogo. Era convinto di aver ordinato di catturare i suoi abitanti ancor prima di iniziare l’assalto, ma a quanto pareva gli uomini dell’esercito non erano all’altezza neanche di un ordine così semplice. Decise di entrare in azione lui stesso.

Ciò che diede il benvenuto alle sue iridi verdi fu una parete distrutta da un’esplosione di potere magico, così ribelle e puro da fargli scendere un brivido d’eccitazione lungo la schiena. Il suo sorriso si fece più ampio mentre camminava oltre i detriti delle mura, mentre al tempo stesso gli occhi andavano a puntarsi verso l’origine di tutto quell’inaspettato trambusto.

"Mhm, bene. Cos’abbiamo qui?" Poche e semplici parole, ma sufficienti a far scendere il gelo nella stanza anche solo per il tono con cui furono pronunciate.

Dante non si preoccupò certamente di nascondere le occhiate che stava lanciando alla ragazza, squadrandola ed osservandola dall'alto in basso, come se fosse un critico d'arte atto a valutare l'ultima opera arrivata in una collezione. Ciò che lo colpì maggiormente di lei fu comunque il suo viso, su cui spiccavano due meravigliosi occhi di un blu quasi magnetico e ravvivati da un mare di emozioni che non fecero altro che portare un maligno sorriso sul volto dell'uomo. 

Era indubbiamente una bellezza incomparabile, tanto che egli si domandò cosa facesse una creatura simile relegata in un paesino del Regno come quello: meritava di meglio, molto di più di essere una mera giovane di origini nobiliari, così lontana dalle luci della ribalta.

Improvvisamente, tutto il vociare che tentava di giungergli alle orecchie si azzittì, il buonsenso dei suoi piccoli pedoni invitò tutti loro a non disturbare quella che sarebbe stata una piacevole conversazione tra un angelo ed un demonio.

Alcuni dei soldati non impegnati a contrastare quella che diventata una fonte di oscuro divertimento e curiosità da parte dell’uomo cercarono di spiegargli la situazione, giustificarsi, ma l’attenzione di lui era completamente fissata sul volto della fanciulla vicina al lato opposto della stanza, rispetto a dove lui si trovava.

Fanciulla che, per sua sciocchezza o desiderio di opporsi, non rispose. 

Se esisteva qualcosa che lo divertiva tra le infinite cose che, altrimenti, avevano meno importanza di un granello di polvere, ciò era osservare gli sforzi inutili di coloro che speravano ancora di potersi opporre al suo volere ed alla Dark Triad. Non era un caso che girassero voci sul fatto che la loro potenza potesse rivaleggiare con quella di un demone--i fatti parlavano abbastanza già senza che alcuno di loro dovesse aggiungere altro.

Tuttavia, lo sapeva (ed una parte di sè provava sincero diletto nel vederli) che ancora esistevano dei piccoli stolti che pensavano di poter resistere, di cambiare le cose e strappargli ciò che era ormai suo, o di negargli ciò che desiderava. 

Oh, come amava vedere la speranza frantumarsi, sparire pezzo per pezzo dai loro occhi!

"Tanto bella quanto silenziosa. Non che la cosa mi dispiaccia, in fondo, tuttavia… Esigo sempre risposta ad una domanda."

Se con le prime due frasi avesse potuto sembrare ancor ancora una richiesta, quell'ultima aggiunta--ed il tono, oh quel tono avrebbe fatto rabbrividire il diavolo in persona--non lasciò scanso ad equivoci.

Non esisteva che qualcuno non rispondesse, per quanto implicita fosse la richiesta. Voleva il suo nome e voleva sentirlo dalle labbra di lei. Voleva sentire la sua voce.

Fece un passo avanti, verso di lei. Poi un altro. Un'altro ancora.

I soldati ancora in piedi non osarono nemmeno tentare di dissuaderlo dal suo intento, ben coscienti che un qualsiasi gesto o azione o parola per fermare il loro signore avrebbe significato morte.

Gli occhi verdi dell'uomo non lasciarono la figura della fanciulla per un istante, gelidi e crudeli ed ovvio specchio del suo intento. Se l’altra non avesse reagito, non avrebbe impiegato molto a raggiungerla; se invece l'avesse fatto... beh, poco sarebbe cambiato in ogni caso.

Aveva deciso quale sarebbe stato il suo premio, la sua conquista. Nulla l’avrebbe fermato dall’ottenerla.



hannyakoma: (Default)
Prompt: I’m on watch here, so close your eyes and get some rest.

Word count: 1010
Rating: sfw
Fandom:
Originale
Note:
Royalty!AU. Amo scrivere di Freyr tanto quanto amo tormentarlo.



Una guerra non sarebbe mai dovuta durare così a lungo. Anche ove fosse diventata una necessità, la morte e la distruzione che essa portava non avrebbe dovuto mai diventare una costante nelle vite di nessuno, dai regnanti ai soldati alla nobiltà ed alla plebe.

Molti la vedevano solamente uno scontro di potere, di abilità e soprattutto di risorse, dove sarebbe uscito vincitore chi poteva vantare la maggioranza degli stessi. Non si guardava mai a ciò che essa lasciava, poichè l’obiettivo ed il fine ultimo era la vittoria--un chiaro esempio di quanto gli uomini potessero essere ciechi di fronte alla realtà ed al buonsenso.

Forse era per questo, insieme a tanti altri motivi, che suo padre--il precedente re--era stato deposto. Assassinato, corresse una vocina nella sua mente, anche se a quel punto la semantica aveva ben poco valore.

Quand’era accaduto, oltre allo sconcerto iniziale, la reazione nei due principi fratelli aveva avuto una sfumatura più… tiepida. Niente stupore, niente dolore. Solamente una fredda, razionale (e, che gli dei e la Stella li perdonino, sollevata) accettazione.

Alla veglia funebre, Siegfried e Freyr stavano fianco a fianco, di fronte alle spoglie mortali di loro padre. L’espressione impassibile, degna del titolo regale a loro conferito dalla nascita, e la postura rigida ma perfetta, anch’essa niente meno che un risultato degli anni di lezioni avute in età giovanile. La cerimonia non fu particolarmente degna di nota, se non per la nota meraviglia nell’assistere nel rituale dell’ultimo saluto: tutti sembravano quasi rapiti dai rapidi e precisi movimenti della sacerdotessa del tempio, incaricata di “guidare” l’anima del defunto verso l’aldilà con le armoniche note del suo qin.

Per lunghi momenti, Freyr aveva temuto di sentire la fanciulla annunciare che lo spirito di suo padre si rifiutava di abbandonare quella terra. L’insensato terrore che quell’idea, fattasi strada nelle sue ossa come il gelo invernale, aveva instillato in lui l’aveva irrigidito come le corde dello strumento più sacro agli dei--qualcosa che, lo sapeva, non poteva essere passato inosservato al fratello maggiore.

Fortunatamente, Siegfried non era tipo da fare domande. O curarsi di lui, per quel che ne sapeva.

*


“Una cerimonia adorabile, mio signore. Non ne convenite?”

Di tutte le cose a cui Freyr avrebbe dovuto abituarsi, quella--era sicuro--sarebbe stata la più difficile. Sobbalzato all’apparizione della creatura, quasi rischiò di rovesciare l’inchiostro del calamaio sulla lettera che stava terminando di scrivere momenti prima da tant’era la foga con cui si era mosso. Gli occhi castani dell’uomo vagarono febbrilmente per la stanza, fino a posarsi sulla poco familiare figura incappucciata vicino al finestrone della sua camera. Solo allora, nel riconoscere la sua mortale alleata, riuscì a calmare in parte il battito frenetico del cuore, che minacciava di balzargli fuori dal petto.

“... Non apparire dal nulla in questo modo.” la redarguì, aggrottando le sopracciglia in un modo che sperava essere almeno la metà contrariato e severo di quanto desiderava. Speranza vana, considerata l’ilarità causata nella creatura stessa da quella reazione.

“Perdono, perdono. Purtroppo, tendiamo a dimenticare la fragilità dell’animo mortale, a volte, poichè un’Ombra non soffre di tali limitazioni.” 

Il clan delle Ombre, una leggenda tramandata ormai per spaventare i bambini più che per ricordare il loro passato di terrore seminato nelle lande. Creature indubbiamente non umane, in grado di esistere nel mondo mortale così come nell’Aldilà--non vive, ma mai veramente morte--e di commettere i più spregevoli atti senza la minima remora, se il loro signore così desiderasse. 

Quella stessa leggenda aveva giurato fedeltà a lui e lui soltanto.

Era stato un azzardo dato dalla disperazione e dal desiderio che tutto finisse, una volta per tutte. Quando aveva trovato il libro del rituale nella biblioteca privata di suo padre, non aveva pensato due volte prima di fare un tentativo: un patto con quegli esseri avrebbe potuto rappresentare l’unica speranza per il loro paese, per porre fine alla guerra che dilaniava le loro terre. 

Quando la cacofonia di voci, che solamente lui poteva sentire per via del patto, gli avevano risposto ed offerto l’aiuto che tanto desiderava, il giovane vi si era lanciato come un uomo affamato su un pezzo di carne.

Egoisticamente, altruisticamente, Freyr aveva agito--contro i paesi limitrofi, nemici della sua patria. Contro suo padre, tiranno del suo stesso popolo. Per suo espresso ordine, le Ombre avevano eliminato gli oppressori che da solo non sarebbe mai riuscito ad eliminare.

Era diventato un assassino, per quanto le sue mani non fossero macchiate di sangue.

Tale presa di coscienza, insieme alla certezza di quali sarebbero state le conseguenze se qualcuno avesse scoperto c’era arrivato a fare, avevano fatto sì che le sue passate notti fossero trascorse nella completa incapacità a prender sonno. Il concetto di riposo suonava più come un sogno distante, irraggiungibile, con il terrore che lo travolgeva come un fiume in piena.

L’avrebbero condannato per eresia, la chiesa ed il popolo al tempo stesso. L’immaginava già, la sua fine, indegnamente segnata dalla moralità collettiva, ma sperava in cuor suo--con un frammento di assoluta, deliziosa innocenza che gli era rimasta dalla fanciullezza--che almeno qualcuno vedesse che le sue azioni erano state votate al bene comune.

Sperava, pregava.

“Mio signore”, richiamò la voce di un’Ombra, molto più vicina di prima; era diversa dalla precedente, notò Freyr, più dolce ma ugualmente familiare alle sue orecchie. Questi sobbalzò nuovamente, strappato dai suoi pensieri ancora una volta, e si voltò verso la figura al suo fianco. “E’ tempo che riposiate, ora. Penseremo noi a vegliare su di voi durante il vostro ristoro.”

Freyr avrebbe voluto rifiutare, per terminare ciò che aveva cominciato prima di coricarsi, ma il modo in cui le mani gelide dell’Ombra lo guidarono dalla scrivania al letto e la delicata melodia che mormorava riuscirono a strappargli uno sbadiglio. Colto da un’improvvisa stanchezza, si trascinò sotto le coperte e poggiò la testa sul morbido guanciale.

“Solo un paio d’ore, allora…” mormorò lui, palpebre pesanti e voce già impastata dalla stanchezza.

Dopo giorni di notti insonni, finalmente, il giovane nobile riuscì a chiudere occhio ed avere un riposo privo di sogni, cullato da una melodia antica e da dita delicate ad accarezzargli i capelli.

 
hannyakoma: (Default)
Prompt: You wanted me to believe in love

Word count: 780
Rating: sfw
Fandom:
Originale
Note:
Doppio pov, angeli e demoni.



They wouldn’t know when it started, if asked. The interest, the attraction, the desire. At that point of time, they came all so natural for them that they couldn’t answer even such an easy question.

Instead, they totally remembered the first time their lips met in an accidental kiss--a sudden touch in the midst of a fight, something that had nothing to do with romance and sweetness--that left them feeling like electricity ran through their whole body. A foreign sensation, that they thought to be the result of disgust and the naturale reaction of making contact with their mortal enemy like that.

Oh, how foolish could they have been! The memory of that seemed to haunt them even after the battle was over, with more of their comrades fallen than the one who survived. Grief should have been the only thing in their mind, prayers the only words echoing in their mind; there were those, for sure, but also something else. 

The image of their enemy up close--swords imbued with ancient magic running through them creating sparks at every contact, expressions contracted in a snarl under the pression and the beginning of fatigue--kept coming back to them. And that kiss, the intimate gesture usually reserved to lovers or family; those lips feld softer than they could have ever imagined--not that they did! Ever! They didn’t want to kiss a demon. Never in their life.

Until now, probably. 

The angel groaned, hiding their face on folded arms which rested on their bent knees. It was a mess and they wanted out, at that time. Unwilling to break under that ungodly desire--a temporary madness, they were sure.

Only, it wasn't. What started as a hopefully fleeting sensation slowly but constantly mutated into something more vivid, more real for them. Angelic choirs often sung of blissful Love, a sacred emotion that Their Creator himself felt towards all of His creations. A sentiment that could change even the Fates. 

In those moments of feverish torment, the angel understood the true meaning of those words. 

*


“You shouldn’t have done that, my dear. You knew He wouldn't understand.”

His voice was as sweet as they were used it to be, even with the clearly mocking tone tainted by soft worry. Their love, one of the demonic Dukes of Hell, stood afore them with an unreadable expression on his usually playful, if not enticing, face. 

He stood at his full height, shoulders tense and slightly trembling, even if the angel couldn't really take notice of that. Not with their eyes brutally burned and unable to see anymore, bloody trails running down their cheeks, and their wings cut off from their shoulder blades--painful, brutal, terrible treatment only reserved to those who committed an unspeakable sin.

The demon knew what that was all about. Their Creator found out about the feelings the angel had and, of course, deemed them enough of a reason to execute His sentence. Jury and judge, He alone condemned one of His most faithful to the eternal darkness, a curse they would have to spend alone in the mortal realm.

All because they found love in someone He couldn't approve of.

Benevolent, caring, ever loving Lord--if only He wasn't the first tyrant the world ever knew, maybe he would have believed that beautiful lie. But he opened his eyes, long ago, and turned away from that holy light before it burned his life away.

A sob choked out thin, chapped lips got his attention back to the present. The once angel laid on the ground, on their side, trembling in what he would deem as shock and fear and utter incapacity to understand what they did wrong to deserve such pain. And the demon thought, one day they will get to it, if they don't fall further into despair.

He really hoped that, for them.

"One day everything will get better. We'll keep fighting for you, too."

As he spoke such words, raising his weapon and aligning it to the fallen creature, his eyes became full of emotion and ghosted with tears--a fact that he'd refuse to admit to anyone. A small mercy, even if it meant ending up falling more and more into depravity for him.

He didn't care sinning, if it meant relieving the pain of someone he loved.

Raising his dark eyes to the bright sky--a taunt, a joke; how did it dare to show such wonderful colors when his Enemy had brought such a disgrace on his dear one? If He wanted to make him believe in love, why did He act to cause him to hate so much?--he swore once again in his soul.

He would bring Him down.


hannyakoma: (Default)
Prompt: It kicks like a sleep twitch

Word count: 200
Rating: sfw
Fandom:
Original
Note:
Mentre pubblico questo mi sono flashata Galo e Lio come eroe e villain, rispettivamente. NEMMENO SO COME GIUSTIFICARE QUESTA COSA ed ancor meno perchè mi sia partita Avril Lavigne in testa. Send help.



 

“Ma sai che scalci proprio come una contrazione nel sonno!”

Il villain si interruppe di colpo, rimanendo imbambolato a fissare l’avversario con il pugno ancora alzato. Pronto a colpire come pochi momenti prima che l’altro parlasse. L’eroe non si mosse, anzi, si limitò a guardarlo con l’espressione di chi era certo di aver appena detto la più grande genialata della storia.

Un istante dopo, il colpo lo raggiunse in pieno viso, accompagnato da un leggiadro “che cazzo dici?!” da parte dell’avversario.

L’eroe ridacchiò, nonostante la situazione. “No, davvero, hai presente quando stai dormendo e ti parte il nervo della gamba e scatta non solo quella ma l’intero corpo e ti svegli di soprassalto? Quello! Hai dei riflessi parecchio strani!”

Il villain si domandò che diavolo di problemi avesse quel ragazzino che ancora puzzava di latte ed inesperienza, per uscirsene con metafore del genere nel bel mezzo di un combattimento. E soprattutto, si chiese se lo stesso avesse pagato per comprarsi la licenza da eroe, perchè quel grado di stupidità avrebbe dovuto essere illegale.

Poco male, pensò. Non durerà a molto in questo ambiente.

Solo, il villain non sapeva ancora di quanto il nuovo eroe in circolazione fosse terribilmente baciato dalla fortuna.

 

hannyakoma: (Default)
Prompt: Come on now, you knew you were lost, but you carried on anyway

Word count: 620
Rating: sfw
Fandom:
Dark Souls I
Note:
SIEGMEYER OF CATARINA BESTEST OF MAN.



Lo scoppiettio del fuoco accompagnò il risveglio del Non morto Prescelto, obbligandola a destarsi dal suo breve riposo. Per qualche momento sembrò essere in una sorta di trance, ad occhi aperti ma senza focus, puntati sulle sue stesse gambe conserte. Un grugnito le vibrò in gola poco dopo, accompagnato da imprecazioni lanciate a mezza voce contro le antiche divinità.

“Su, su, amica mia! Se ti sentissero i tuoi compagni della Via Bianca...”

Iridi ancora velate di sonno andarono a posarsi sulla tondeggiante e protettiva armatura del cavaliere di Catarina a quel commento, stupite più di quanto forse avrebbero dovuto nel trovarlo ancora seduto accanto al falò. “Siegmeyer, credevo fossi ripartito mentre… Cosa fai ancora qui?”

“Un cavaliere di Catarina non abbandona mai un amico in un momento di debolezza!”

Debolezza, diceva? Oh, già… Aveva già cominciato a dimenticare le circostanze del loro ultimo incontro. La Città Infame e la Palude tenevano molto ad essere all’altezza dei loro nomi, e prova ne erano le tre morti (e mezza, considerando quanto la tossicità l’avesse portata ad un passo dall’ennesima dipartita) ivi vissute da Grainne e le miriadi di anime raccolte a fatica ed andate perdute sotto strati di sudiciume infetto e veleno. Se era sopravvissuta, quell’ultima volta, lo doveva solamente al valoroso e gentile cavaliere di Catarina.

“Sei rimasto per assicurarti che mi svegliassi?” domandò la fanciulla, stiracchiandosi la schiena dolorante e le braccia intorpidite.

“Ovviamente, amica mia. Dopo tutto l’aiuto che mi hai dato in passato, abbandonarti nel momento del bisogno sarebbe stato semplicemente vile. Una missione difficile, indubbiamente, ma questo cavaliere non si sarebbe tirato indietro comunque!”

La risata dell’uomo, bonaria e sincera, portò un sorriso sulle labbra della giovane. “Quando ci libereremo dalla maledizione, vorrei visitare Catarina.” buttò lì lei, poggiando il mento su una mano; il braccio puntato col gomito su un ginocchio. “Ti offrirò da bere per questa tua premura.”

“Oh! Un’offerta che non potrei rifiutare nemmeno volendo!”

Grainne non era più certa che vi fosse un modo per effettivamente salvare i non morti dalla loro maledizione. Aveva girato gran parte delle terre di Lordran con attenzione, salvo le maledette Catacombe e l’altrettanto maledetta Città Infame, ma fino a quel momento non aveva trovato indizi che confermassero la possibilità. Soltanto muri, nemici, morte e disperazione.

Eppure, anche senza risposte, doveva comunque andare avanti--un motto antico, forse quanto quelle stesse terre che calpestava, ma che più chiaramente esprimeva la sua esistenza.

Il destino dei non morti. 

Da quando aveva scoperto di essere una di loro, Grainne aveva sentito parlare solamente di quello dalla sua famiglia: i Jaltier erano sempre stati fedeli alla Via Bianca ed al loro credo, sin da prima che la maledizione della non morte si espandesse a macchia d’olio sulle loro terre. Sin dal principio suo padre Wilhelm, così come suo fratello maggiore Seamus, avevano appoggiato e sostenuto le cacce ai senza senno, o potenziali tali, nel loro paese, unendosi alle spedizioni con l’entusiasmo di dieci uomini ciascuno. 

Insieme a sua madre Annabel, Grainne rimaneva sempre a casa in attesa del loro ritorno, la più anziana nella totale certezza che il marito ed il figlio avrebbero portato gloria alla loro famiglia e la più giovane, al contrario, tormentata dall’ansia della spedizione, dai rischi, dal pericolo…

Di tante qualità positive che si potesse immaginare avere, Grainne non era il tipo avventuroso. Non desiderava che una vita serena con la sua famiglia, finchè un giorno non ne avesse costruita a sua volta una. Non voleva vivere avventure indimenticabili o affrontare e vincere nemici leggendari, nè che il suo nome venisse ricordato o associato a titoli pomposi che sarebbero solo andati persi nelle ceneri del tempo.

Il destino dei non morti. 

 

Non le rimaneva null’altro che quello, ormai.

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