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[personal profile] hannyakoma

Prompt: Pioggia, neve, oscurità
Word count: 2520
Rating: sfw
Fandom: Originale

Note: TW: tematiche probabilmente un po' delicate, quali stati mentale non propriamente sani.



 


 

Accadeva spesso e volentieri che Caleb si trovasse sveglio, nella confortante penombra della sua camera da letto, con gli occhi sbarrati ed il respiro affannato. Quando riusciva a respirare, per lo meno, ed il panico non minacciava di stringere la presa attorno alla sua gola in un possessivo abbraccio di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

 

Con un sospiro esitante, un tremolio simile a quello che gli pervadeva gli arti, nascose il viso dietro le mani e si avvolse ancor più nelle calde coperte invernali. Eppure lo sapeva. Sapeva che nonostante quel senso di tepore riuscisse a consolarlo il più delle volte che non riusciva a dormire, o a prendere sonno o ancora a calmarsi dopo l'ennesimo incubo, non era mai abbastanza.

 

Come avrebbe potuto, quando era abituato al calore di un'altra persona vicina, a reali braccia strette amabilmente attorno alla sua vita ed alle canzoni mormorate tra una carezza e l'altra?

Ne era divenuto dipendente, oramai. Senza la minima possibilità di scampo.

Anche se si sentiva un bambino spaurito in quelle situazioni, sapeva benissimo che avrebbe dovuto affrontare la cosa prima o poi, perchè quella stessa lo stava lentamente ma inesorabilmente portando verso l'esaurimento e la follia. A volte, si trovava a pensare che non sarebbe stato così male abbandonarsi completamente ad essa, smettere di pensare e ricordare, e continuare solamente per inerzia—sempre che anche di quella gliene fosse rimasta a sufficienza.

Non importava quante pillole gli prescrivesse il medico, o quante visite di check up facesse al mese, o di come Aiden lo chiamasse praticamente ogni sei ore per assicurarsi che non si fosse affogato nella vasca da bagno. Nulla di tutto ciò importava, tanto meno gli serviva come stimolo per superare il problema che lo attanagliava.

Anche in quel momento, oltre alla mancanza che avvertiva prepotente e pressante, aveva come la sensazione di sentire un gelo a cui non sapeva dare un nome, non identificabile. Nello stato caotico in cui si trovava la sua mente, pareva che le ombre stesse avessero acquisito forma e peso, tanto da far affondare appena il materasso alle sue spalle. Quelle stesse, indesiderate compagne notturne, ora come altre volte apparivano compiaciute dalla sua disperazione, persino quando soavi accarezzavano con le loro dita affusolate la sua schiena, in gesti all'apparenza amorevoli.

Era una tortura. 

Sentiva freddo e caldo assieme, Caleb, nessuna delle sensazioni accennava a placarsi o a cancellare l'altra. Semplicemente, coesistevano insieme ai suoi demoni, contente nel quieto coesistere tra loro in un'alleanza atta a disturbargli ancor più il riposo.

Di scatto, si sollevò dal cuscino, scacciò le coperte e si mise seduto sul materasso a gambe incrociate. Lo sguardo febbrile si posò sul comodino, ove sparpagliati oggetti decoravano la superficie. Gli bastò poco ad allungare una mano, afferrare il contenitore delle pillole e la bottiglia mezza vuota che s'era portato la sera prima; ed ancora meno impiegò a prendere una manciata delle stesse, cacciarle in bocca—sentire quel sapore amaro, ferroso, sulla lingua gli portò per un istante un brivido che nulla aveva a che fare con la temperatura—e seguire con un lungo sorso d'acqua, che finì per andargli di traverso dalla foga.

Ad ogni colpo di tosse sentiva la gola bruciare via via sempre più—un fastidio più che sopportabile ma pur sempre un fastidio—tanto che, non appena si fu calmato a sufficienza, andò a prendere l'ennesimo, più calmo, sorso d'acqua. Nessun incidente a quel giro.

C'era un qualcosa di ironico in tutto ciò, e di nostalgico, perchè avrebbe giurato di sentire ancora la voce che lo prendeva in giro per come si riduceva a bere o mangiare con foga alcune volte. Al solo pensiero, come a voler peggiorare la situazione, gli salì un breve singhiozzo, stroncato solo dal nodo alla gola che gli si formò al contempo.

"Muovetevi, muovetevi" pensava intanto, sempre più agitato. "Muovetevi a fare effetto, dannazione!"

Già, le pastiglie erano la sua unica speranza per un sonno forzato.

 

Fortunatamente, le sue preghiere trovarono presto risposta.


 

*


«Caleb, ma che hai combinato? Guarda come ti sei ridotto...»

Quella voce conosciuta, calda ed accogliente nonostante le parole d'ovvio rimprovero, attirarono la sua attenzione come una vivida fiamma per una falena, riuscendo ancora una volta a far fiorire sul suo viso un sorriso pieno di sentimento. Caleb non aveva nemmeno bisogno di voltarsi o di alzare lo sguardo per capire di chi si trattasse.

Passi leggeri si avvicinarono a lui, la figura snella cui essi appartenevano già pronta ad accoglierlo con le mani sui fianchi, in una dimostrazione di finto disappunto ma sincera preoccupazione. In un attimo, la stessa scomparve dietro una delle porte che davano sul salottino all'ingresso—non per molto, tuttavia: istanti più tardi, Caleb si trovò con la vista oscurata e la testa lievemente appesantita da un asciugamano.

«Te l'ho detto che dovevi portarti l'ombrello oggi, con questo tempo...»

La pioggia era letteralmente l'ultima delle sue preoccupazioni. Anche se gli abiti s'erano infradiciati completamente, anche se i capelli castani stavano fastidiosamente incollati alla fronte, anche se il freddo pungente stava cominciando ad affondargli nelle ossa; nulla di tutto ciò sembrava importare minimamente.

Non quando le mani delicate, seppur decise, di Corrin gli stavano premendo il panno sulla testa, sfregando accuratamente la chioma zuppa per rimuovere almeno il più grosso ed evitargli di prendersi chissà quale malanno.

Gli occhi scuri di lui si posarono sulla figura di fronte a sè, con sguardo adorante, come se fosse la prima volta che l'incontrava e stesse cercando i più piccoli dettagli di quel suo viso d'angelo. Gli zigomi alti, decorati da lentiggini chiare; gli occhi verdi screziati di blu, socchiusi e velati di una stanchezza naturale; il modo in cui le sue labbra si piegavano in un sorriso splendido, seppur solo accennato.

«Giuro, tutte le volte è sempre la stessa storia, non ti prendi mai cura di te. Nemmeno cerchi di non ammalarti!»

Di nuovo un rimprovero, ma lui sapeva interpretare alla perfezione quel tono e quelle parole: era preoccupazione, perchè se Corrin lo riprendeva era solamente per il suo bene. Dopo tutto, si conoscevano da tanti anni e troppa era la complicità tra loro per aver bisogno di troppe parole, troppe spiegazioni.

Con un'emozione che non sapeva descrivere a parole, Caleb si lasciò andare e posò la fronte contro la spalla altrui, stringendo l'amante per la vita ed inspirandone il profumo. Non dovette attendere affinchè il gesto venisse ricambiato.

«Ti preparo un bagno caldo, okay? E poi una tazza di tè.» cominciò il più giovane, avvolgendo le proprie braccia attorno alle spalle altrui e passando una mano tra i capelli ancora umidicci dell'amante. «Dopo mi dirai cosa ti preoccupa.» aggiunse infine, in un sussurro.

Corrin era così. Altruista, di buon cuore e naturalmente a favore del prossimo prima che della propria persona. Per questi, e tanti altri motivi, Caleb l'amava. L'amava più di quanto avrebbe mai pensato di amare qualcuno. Più di quanto avrebbe pensato di aver mai potuto amare in vita sua.

Ricordava che, in un giorno similmente uggioso, Corrin aveva lodato quello stesso tempo, dicendo di amarlo persino! Non c'era nulla di meglio di rintanarsi in casa, sul divano, magari con una tazza di cioccolata (o di tè, o di caffè; non era assolutamente schizzinoso in quei termini) tra le mani ed l'altra metà del suo cuore al proprio fianco. Era il tempo perfetto, diceva, e come poteva Caleb contestare quell'affermazione?

 

La pioggia, da allora, aveva assunto un significato più speciale nella sua mente. E la stessa pioggia di cui erano ancora pregni i suoi vestiti sarebbe stata la sola ed unica testimone di quella notte.


 

*


La luce artificiale delle lampade, bianca quasi quanto le pareti che lo circondavano, gli diede alla testa per più di un momento, costringendolo a richiudere gli occhi con un grugnito infastidito.

Non si trovava più nella sua camera, a casa sua, tanto era palese. Non era nemmeno un ambiente poco familiare, se proprio doveva dire tutta la verità. Forse c'era dello sbagliato nel dire che quella non fosse un po' "casa".

Pur percependo chiaramente un certo intorpidimento alle braccia, fece lo stesso del suo meglio per portare un braccio sul viso—possibilmente non quello a cui erano collegati tubicini trasparenti con soluzioni varie ed eventuali che, come altre volte, servivano affinchè non si lasciasse morire completamente. A volte si domandava, Caleb, a chi sarebbe importato davvero se l'avesse fatta finita.

In quel momento, però, era troppo stanco e destabilizzato per dedicarsi a domande tanto profonde e autodistruttive: si sentiva come se il corpo intero si fosse tramutato in pietra, pesante e goffo, impossibile da spostare senza aiuto altrui. Decise, saggiamente, di non muoversi più del necessario e concentrarsi sulla respirazione.

Una piccola parte di sè, seppur soffocata usualmente dall'insieme di voci ed urla e sensazioni che non l'abbandonavano mai, se non quando faceva uso dei farmaci a lui prescritti, gli sussurrava ancora quant'era stato bravo a sopravvivere a se stesso un'altra volta.

"Potresti essere molto di più, Caleb" gli diceva di tanto in tanto, il tono carezzevole e vellutato, e quando effettivamente l'ascoltava gli sembrava davvero di poterci credere. Di poter realizzare quell'utopia in cui sì, era una persona migliore sotto molti punti di vista.

Chiaramente, non l'aveva mai ascoltata abbastanza da far sì che tali propositi si realizzassero.

I medici l'avevano definito un caso patologico, senza speranza. E se lo dicevano loro, che poteva fare lui per far cambiare idea a loro? Ormai l'etichetta di "pazzo" non gliel'avrebbe mai tolta nessuno, nemmeno di fronte ad un netto miglioramento—ipotesi che, con la lucidità di poi, Caleb stesso avrebbe riso anche solo a considerare.

La società non l'avrebbe accettato dopo tutto ciò, così come non l'aveva accettato prima. E come biasimarli?

Lo capiva, davvero. Lo capiva.

Nonostante la mente continuasse a ripetergli questo, dentro di sè avvertiva comunque le crudeli stilettate del gelo. Una sensazione simile, ma ben peggiore se moltiplicata ancora ed ancora per se stessa, a quando da bambino affondava le mani nella neve e giocava con essa insieme ai suoi genitori, ai suoi cugini ed a sua sorella.

Erano tempi molto diversi, quelli, ormai andati. Non ricordava l'ultima volta che aveva parlato con sua madre o suo padre e ciò doveva già essere segno di quanto il loro rapporto si fosse deteriorato. Sua sorella... lei ci aveva almeno provato, per un po', a tenere i contatti, almeno prima che finisse col doversi immergere full-time con l'università ed il lavoro e poi la casa e la famiglia.

Sperava, Caleb, che almeno lei fosse riuscita a costruirsi e tenersi un posto tutto suo nel mondo. Se lo meritava. Era una ragazza sveglia, Sybil, e tanto si meritava in cambio del suo impegno.

Passi pesanti, troppo numerosi per essere di una sola persona, distrassero i suoi sensi dalle reminiscenze del suo passato e furono abbastanza rumorosi da anticipargli l'ingresso del medico e dei due assistenti nella camera bianca ed asettica d'ospedale.

«Caleb, si è svegliato finalmente. Come si sente?»

«Una merda, come al solito.»

Il dottor Aiden Newman aveva preso in carico il suo caso da anni ormai, tanto che Caleb aveva cominciato inconsciamente a considerarlo una sorta di amico, più che il suo medico curante. Anche questo, da un lato, poteva essere un indice della sua effettiva condizione. O disperazione, solitudine.

Il desiderio di avere almeno una persona che potesse considerare vicina—forse era quella la causa di tutti i suoi problemi. Se solo avesse potuto dimenticare quello stupido bisogno...

Aiden non sembrò particolarmente infastidito dal linguaggio, forse perchè dall'alto della sua esperienza aveva sentito (e visto, soprattutto visto) molto di peggio. Senza scomporsi, infatti, andò a prendere una delle sedie usualmente riservate agli ospiti e si accomodò con fare da confidente su di essa, a poche spanne dal paziente.

«Dimmi, cos'è successo questa volta? Cosa ti ha spinto di nuovo a...?» Un gesto con la mano e lasciò cadere la frase così, in un'apparente (finta) dimostrazione di tatto.

«Guardi che lo può dire. Ho tentato di ammazzarmi con le pasticche. Non è una novità.»

Non seppe se dirsi grato o infastidito dai secondi di silenzio che Aiden gli concesse, dopo quella sua risposta, nè di quelli che ancora seguirono. Sapeva che l'altro fosse un uomo paziente, tanto da lasciargli i suoi spazi ed i suoi tempi per rispondere—avevano imparato a conoscersi, a convivere in quella relazione medico-paziente di cui almeno uno avrebbe volentieri fatto a meno.

Con un sospiro, dopo una pausa che sembrò estendersi all'inverosimile, il silenzio fu rotto.

«Volevo... rivedere quella persona. Il pensiero di non- di non aver più nessuno con me, non so... era diventato troppo. C'era troppo...»

«Troppo cosa?»

Caleb alzò stancamente il braccio sulla sua fronte di qualche centimetro, prima di lasciarlo ricadere dove stava prima. La sua voce si fece più stanca, tremante. «Ha presente quando... d'inverno stai tutto il giorno fuori a giocare a palle di neve, e stai vincendo pure... sei felice come uno stupido, perchè seriamente? Chi mai potrebbe sentirsi in cima al mondo per aver vinto una sfida a palle di neve?» Un singhiozzo gli chiuse la gola per un istante. «... E poi, beh... poi tua sorella, che non ha mai imparato ad accettare una sconfitta—ah, ma è una cosa positiva, eh. Sybil è determinata a non arrendersi, secondo me le sta bene come personalità... Uhh, cosa stavo dicendo prima?»

«La battaglia a palle di neve.»

«Oh, giusto. Sì... beh, sa quando è accaldato dopo aver corso e saltato in giro come un coniglio, e qualcuno le caccia la neve gelida nella schiena? Quella... quella è la sensazione che sentivo. Solo che non basta farsi un bagno caldo, o cambiarsi d'abiti, o coprirsi con piumoni e termocoperte, o farsi la borsa dell'acqua calda... Semplicemente, sta lì. Nelle vene, nelle ossa, finchè non diventa insopportabile.»

Ancora una volta, il silenzio si estese tra loro due, palpabile come un'invisibile tenda. Fu ancora una volta Caleb a spezzarlo, con una singola frase che fece accigliare il dottore.

«Corrin... è la sola speranza che mi rimane per cancellare quel gelo, doc.»

«Corrin? Caleb, abbiamo già parlato di... questo. Corrin non è reale, non è mai esistito, nè mai potrebbe tornare.»

Uno sbuffo—divertito? Rassegnato?—lasciò le labbra di Caleb. «Doc, Corrin non se n'è mai andato. L'avete solamente messo a dormire, ma... Non potete tenerci lontani. Ci apparteniamo.»

«Caleb, devi dimenticare Corrin, lo sai che-»

«Non posso dimenticare, doc… Non posso, io… io non posso...»

Aiden non rispose: anche lui doveva aver imparato a riconoscere quel tono, nel corso dei mesi passati. Quando faceva così, non era decisamente il momento per tentare di farlo ragionare, troppo perso com’era nel tentativo di ridare un ordine alla sua vita.

Con un sospiro mesto a scivolargli dalle labbra, il dottore semplicemente si alzò dalla sedia e diede rapide indicazioni ai suoi assistenti—parole pronunciate a voce chiara, alta, ma che andarono completamente ignorate da colui a cui sarebbero dovute più interessare. 

Che avessero tentato di "curarlo" con farmaci, terapie o quant'altro. "Ci provassero pure!" si diceva. Nel suo piccolo mondo, a Caleb non importava avere controllo su di sè, affrontare o dimenticare ciò che era la causa dei suoi mali, superarli.

 

A lui bastava avere Corrin per riuscire a respirare di nuovo.

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